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Fuga dalla miseria

Fuga dalla miseria

Quando gli immigrati eravamo noi

 

-– di Guerrino Iacopini

 

Pubblicato su Profili Italia anno II numero 8, ottobre 2009

(clicca quì per leggere questo articolo nella versione editoriale)

 

Migrare verso un altro Paese è di solito una fuga da qualcosa di spiacevole. C’è chi scappa dalla guerra e dalla dittatura, chi dalla carestia e dalla miseria, chi da una vita impossibile. Lasciare la propria terra e i propri affetti significa sperare in una nuova esistenza, dove non si possa più soffrire la fame. La speranza di arrivare in un nuovo mondo, dove tutti sono liberi e uguali, dove è concessa anche a un povero l’opportunità di andare avanti nella vita, spinge milioni di disperati a spostarsi in ogni parte del pianeta. Prima di albanesi, romeni, cinesi, africani, indiani, kosovari furono i nostri nonni a lasciare il Bel Paese, per cercare fortuna in ogni angolo della Terra. In stazioni ferroviarie o porti che, molto probabilmente, non avrebbero più rivisto, senza conoscere una sola parola della lingua straniera con la quale avrebbero dovuto confrontarsi, stringevano valige di cartone piene di niente. Un viaggio della speranza che per molti non ha rappresentato l’Eldorado: sono partiti poveri e giunti a destinazione, invece dell’agognata ricchezza, hanno incontrato difficoltà d’inserimento che li hanno costretti a un’esistenza ancora più disgraziata di quella di partenza.  In una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, datata Ottobre 1912, si legge testualmente: “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro, affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche, quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti, ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano, purché le famiglie rimangano unite, e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”. Osservando attentamente com’erano descritti i nostri antenati emigranti, ci si accorge che non c’è differenza con i migranti che attualmente arrivano sulle nostre coste. Le facce di chi sbarca oggi sono identiche a quelle di chi sbarcava allora, come identiche sono le abitazioni, le difficoltà d’integrazione, i lavori svolti, il trattamento subito. Il secolo d’immigrazione italiana all’estero (1876-1976), per le sue enormi dimensioni, è considerato il più grande esodo della storia moderna. In questi cento anni sono stati censiti ben 25 milioni e 800 mila emigranti italiani. Dal 1905 al 1976 ne sono rientrati 8 milioni e mezzo, circa uno su tre di quelli partiti. Possiamo tranquillamente affermare che al mondo esistono due Italie: una sulla Madre Terra, composta da 57 milioni di persone e l’altra sparsa nel resto del mondo, composta da 60 milioni d’italiani e figli d’italiani. I nostri emigranti all’estero hanno dovuto subire per oltre un secolo intolleranze, pregiudizi, paure e razzismi prima di essere accettati e divenire parte integrante delle popolazioni locali. E oggi molti nostri ex connazionali sono invece citati come esempio positivo. Vorrei ricordare agli esponenti politici che rappresentano il Nord del nostro Paese, che gran parte delle loro fabbrichette sono il frutto del duro lavoro dei loro antenati in Paesi stranieri. Prendano esempio da questa verità storica e imparino a portare rispetto a qualsiasi essere umano, sia esso africano o “terrone nostrano”. Il mondo è di tutti, bisogna solo imparare a convivere. E a quel punto le paure del diverso svaniranno per sempre, e certamente per molti sarà anche più bello vivere.

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