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Figli di un Dio minore
Disabili, lavoro e crisi economica
– di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 7, settembre 2009
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Ogni volta che incontro un bambino/a o ragazzo/a down o diversamente abile, esplode dentro di me una bomba atomica d’amore e sento che la cosa è reciproca. Non so perché mi accada, ma questo meraviglioso sentimento l’ho sempre posseduto e, man mano che io crescevo, lui cresceva in me. Per questo motivo, oltre che per giustizia, non potevo non affrontare l’infelice problema della mancata applicazione della legge sull’assunzione dei disabili. La normativa, infatti, obbliga le aziende che abbiano tra 15 e 35 dipendenti ad assumere un disabile, due fino a 50 dipendenti e per le aziende più grandi prevede che sia loro riservato il 7 per cento dei posti di lavoro. I mancati controlli da parte degli organi competenti consentono alle imprese che non hanno nessuna intenzione di assumere i portatori di handicap di farla franca per anni, e se scoperte, la sanzione è talmente meschina (51,65 euro al giorno) che conviene pagare la multa invece di assumerli. Le aziende, inoltre, versando un contributo al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili, sono comunque esonerate dall’assumerli. In questo modo, il lavoro per i portatori di handicap è praticamente un’illusione. E pensare che invece sarebbe la base per l’integrazione sociale di quelle persone che nella nostra società sono le più svantaggiate e le più bisognose di aiuto. Il diritto al lavoro non può essere separato dagli altri diritti della persona disabile, che più di ogni altro essere umano, con esso può raggiungere quell’autostima che è la strada verso la realizzazione di sé stessi e dei propri desideri, oltre al superamento delle proprie necessità. L’inserimento nel mondo del lavoro per un disabile è vita: senza rapporti sociali, senza scambi e senza confronti con il resto della società, si sentono inutili e, privati persino dell’idea di poter materializzare un tenero amore, sono spinti a chiudersi in se stessi per paura di essere derisi dagli “altri”, quelli che dalla vita hanno avuto tutto e il meglio di tutto. Ecco che allora spendono in modo abulico i loro giorni in attesa di un lavoro che chissà se arriverà mai. Grazie alla crisi economica, il Governo, per correre in soccorso alle aziende, ha consentito loro di accedere alla cassa integrazione, alla mobilità, alla riduzione dell’orario di lavoro e ha perfi no sospeso l’obbligo di assunzione dei diversamente abili, com’era previsto dalla legge del 1999. Quest’altro regalo alle aziende, a danno della categoria più debole della nostra società, è vero che è stato fatto dalla destra, ma bisogna ammettere che quelli che una volta si definivano i paladini del sociale, in altre parole la nostra sinistra, se ne sono infischiati altamente. Per non parlare poi del Centro, che queste problematiche oramai non le prende più neanche in considerazione. La conseguenza di questo menefreghismo è che ci sono migliaia di posti riservati ai portatori di handicap non occupati e centinaia di migliaia di lavoratori disabili perennemente iscritti alle liste di collocamento speciali che continuano a illudersi. Per un disabile il lavoro non è tanto uno stipendio alla fi ne del mese, quanto poter gridare al mondo intero: “Nonostante il mio svantaggio, lavoro e produco come il resto dell’umanità, perciò ho diritto alla stessa considerazione”. Tra le mie tante amicizie, ci sono due sorelle, Noemi e Sara, ambedue affette da una malattia degenerativa che causa loro la perdita dell’equilibrio. La sera quando torno stanco morto dal lavoro, prima di arrivare al portone le vedo sedute su una panchina fuori dal locale gestito dalla loro mamma e quando i nostri occhi s’incrociano, vedo il loro sorriso a metri e metri di distanza. Non riesco a passare dritto, perché i nostri spiriti hanno bisogno di scambiare almeno due chiacchiere. Proprio in una delle nostre conversazioni una volta Noemi mi ha detto: “Guerrino, non parlo con nessuno per paura di essere derisa riguardo la mia condizione. Ho quasi 24 anni e questo mio timore mi preclude l’avere rapporti con la gente, e di conseguenza sperare nell’amore. E pensare che invece se un qualcuno mi sposasse, questo farebbe un grande affare!” Questa affermazione rappresenta appunto la sofferenza e il distacco tra le parti, che acuisce quella discriminazione sociale ancora granitica nei confronti della disabilità. Con persone serie, corrette e oneste come Noemi, a guadagnarci non sarebbe solo il fi danzato ma l’intera società… Allora perché non fare qualche cosa?
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Teenager & alcool
Binomio ormai indissolubile
- di Guerrino Iacopini -
Pubblicato su Profili Italia anno I numero 5, novembre 2008
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L’ultima indagine Istat riferita al consumo dell’alcool in Italia è a dir poco impressionante. L’istituto di statistica sostiene che i giovani italiani iniziano a bere a 11 anni e a 16 molti di loro sono già alcolizzati. Fino a poco tempo fa ubriacarsi era riprovevole e da persone avanti negli anni, oggi invece, grazie anche alla grande quantità di spot televisivi, fa tendenza. Sempre più spesso si usa l’alcool come “sballo” in sostituzione delle solite droghe o in aggiunta ad esse. Il “binge drinking”, il “bere per ubriacarsi”, è ormai un fenomeno diffuso; ma perché i nostri giovanissimi si ubriacano? I motivi sono veramente molti: mancanza di ideali in cui credere, mancanza di affetti, mancanza di una certezza del futuro, pretesto per distaccarsi dalle difficoltà della vita, debolezza di carattere, voglia di far parte di un certo “branco”, necessità di mettersi in mostra, ecc. Bere per fuggire dalla realtà e andare in un mondo irreale alla ricerca del proprio io e del superamento di tutti gli ostacoli. Come tutte le sostanze che fanno sballare, anche l’alcool però non è un rimedio, ma un modo per non pensare e sfuggire momentaneamente ai problemi. Chi vuole un futuro appagante dove è possibile vivere bene, deve affrontare i problemi e cercarne la soluzione dentro di sé. L’alcool è uno dei principali fattori di rischio per la salute dell’uomo, la terza causa di mortalità prematura nell’Unione Europea, nonché la prima causa di morte per i giovani maschi di età compresa tra i 15 e i 29 anni. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, ogni anno nel nostro Paese l’alcool uccide 25 mila persone: 18 mila uomini e 7 mila donne. Circa il 10% di tutti i decessi registrati nel corso di un anno sono da ritenersi causa dell’alcool. Circa un milione di ragazzi italiani sotto i 16 anni dichiara di bere regolarmente. Molti giovani bevono solo nel fi ne settimana, qualche “bicchierino” insieme a qualche “canna” in compagnia degli amici, e poi in giro per la città a smaltire lo sballo, prima di rientrare a casa. Altri ragazzi invece lo fanno tutti i giorni. Si svegliano e iniziano subito con uno “spritz” (vino bianco, Aperol, Campari e selz) e vanno avanti nella mattinata a birra e aperitivi vari. Il pomeriggio prosegue con quei mix alcoolici tanto pubblicizzati da tutti i media o con cocktail di ogni genere, con contorno ovviamente di hascisc e marijuana. La sera si va avanti con i bicchierini di Tequila, Rum e qualche tirata di coca e un paio di lattine di “red bull” per rimanere svegli il più possibile. Nessuno andrebbe mai a dormire, ci si incammina solo quando finisce la “roba” o proprio non ce la si fa più. Le notti italiane sono piene di ragazzini ubriachi che girano per le strade, come cani randagi, in attesa che la notte finisca. Nel week-end, per loro, c’è il tour de force, la discoteca! Qui i giovani ingeriscono fiumi di alcool e una quantità impressionante di droghe, dal fumo all’ecstasy, dall’eroina alla coca, dalle anfetamine all’Lsd. Ogni sabato sera aumentano i genitori che in lacrime e con il cuore in frantumi, sono davanti ai resti dei propri fi gli, che puntualmente si schiantano in automobile. Il loro tormento ed il loro silenzioso dolore straziano ognuno di noi. Davanti a questo, che è il problema dei problemi, non possiamo aspettare che la politica o le istituzioni facciano qualche cosa al posto nostro, abbiamo l’obbligo ed il dovere di cominciare immediatamente noi stessi, all’interno delle nostre case. I genitori devono spiegare ai propri fi gli i pericoli legati all’abuso dall’alcool e all’uso delle droghe, stare di più con loro, riprendere il dialogo, cercare di capire le loro necessità e dare la certezza che possono contare sempre e in ogni caso sui genitori. Perché padri e madri sono disposti a tutto pur di difendere il solo e vero tesoro che possiedono: i fi gli!
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La Ricchezza
Per risollevare il capitalismo diffonderla e non concentrarla
- di Guerrino Iacopini -
Pubblicato su Profili Italia anno I I numero 2, marzo 2009
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Karl Marx e Friedrich Engels, con le loro teorie filosofiche, politiche ed economiche, che costituiscono la base ideologica del comunismo, hanno fortemente influenzato il XIX secolo. I due sostenevano, fra l’altro, che la condizione politica di ogni individuo dipendeva dalla propria condizione economica, pertanto era impensabile che un ricco fosse comunista mentre un povero no. La conseguenza di questo pensiero è stata la spietata lotta compiuta con ogni mezzo dai comunisti e dai poveri contro qualsiasi forma di ricchezza, perché considerata il loro principale nemico. Più si combatteva la ricchezza, più diminuivano i ricchi e aumentavano i poveri. I benestanti vedevano crescere esageratamente sia il denaro sia i beni materiali, mentre i bisognosi vedevano aumentare il loro stato di miseria fino alla povertà estrema, che causava loro il più alto grado d’infelicità. L’esatto contrario di queste dottrine è l’economia di mercato, meglio conosciuta con il termine di capitalismo: in altre parole quel sistema sociale caratterizzato dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e la conseguente divisione tra classe capitalista e quella dei lavoratori, dove è riconosciuto il diritto a tutte le persone e società di acquistare e vendere beni capitali, compresi la terra e il lavoro, in un libero mercato, in cui ogni forma di proprietà e di scambio è svincolata dal controllo e dall’ordinamento statale. Per via delle teorie marxiste, il mondo è stato diviso sostanzialmente in due parti: il totalitarismo contro il libero mercato, la dittatura del proletariato contro il capitalismo, che altro non sono che la raffigurazione della povertà contro la ricchezza. La vittoria del capitalismo sul totalitarismo ha fatto si che oggi il patrimonio dei 200 individui più facoltosi del mondo è superiore al reddito totale del 41% della popolazione mondiale, in altre parole di 2.665.000.000 di persone. Questi dati confermano che non è la scarsa ricchezza il problema irrisolto, ma la sua concentrazione! La miseria può essere sconfitta solo con la ricchezza diffusa e non con quella concentrata. Più persone diventeranno ricche e meno poveri si avranno. Dove per “più persone ricche” non s’intende l’aumento della ricchezza soggettiva, al contrario indica l’aumento della ricchezza oggettiva. In Italia come nel mondo sta succedendo che la ricchezza concentrata sottrae soldi e spazi alla ricchezza diffusa: infatti nel nostro Paese la metà è concentrata nelle mani del 10% delle famiglie, mentre per le altre cresce l’indebitamento. Secondo uno studio della BRI (Banca Regolamenti Internazionali), in Italia e negli altri Paesi industrializzati, negli ultimi venticinque anni i guadagni delle aziende sono aumentati smisuratamente, sino ad arrivare al 31% del PIL, amputando i salari. John Maynard Keynes sosteneva che per impedire che il capitalismo si autodistrugga, esso ha bisogno di una continua regolazione, e forse proprio partendo da questo principio che il presidente francese Nicolas Sarkozy, in visita in Italia per il vertice italo-francese, ha dichiarato in un’intervista a “La Stampa” che “l’Europa è stata il motore delle iniziative finalizzate a rifondare il sistema economico e finanziario internazionale” e che “gli europei dovranno presentarsi uniti e determinati, poiché è in gioco la rifondazione del capitalismo”. Quello che oggi preoccupa non è la rifondazione del capitalismo, anche perché questo si aggiorna e acquista nuovi signifi cati in ogni epoca storica, ma come esso sarà rifondato nell’era della globalizzazione. La crisi economica che ha colpito l’intero pianeta per i politici e gli esperti del settore non è stata di certo una novità e neppure una sorpresa. L’accesso al credito facile e illimitato e le azioni finanziarie compiute ai danni dell’economia reale hanno prodotto un arricchimento per pochi speculatori finanziari e un indebitamento infinito per la gente comune, con il relativo aumento incondizionato della povertà, creando un “capitalismo senza capitale” dove la ricchezza raggiunge valori di estrema concentrazione e conduce inevitabilmente il ciclo economico alla sua fi ne, dando così origine ad una contrazione che a breve si trasforma in recessione, o peggio ancora alla stagflazione (recessione più aumento dei prezzi dovuto all’infl azione). In queste circostanze si assiste alla diminuzione della produzione e all’aumento della disoccupazione che immancabilmente porta a una crescita della povertà. I nostri giorni vedono un sistema fi nanziario dominare il mondo, all’interno del quale rischio e ricchezza sono virtuali, mentre la povertà è reale! La globalizzazione ha prodotto tanta ricchezza che non ha coinciso con l’aumento del benessere collettivo ma con il suo esatto contrario, che sta mettendo a rischio i valori fondamentali dell’umanità. L’economia globale, così come è strutturata, sta producendo sia la crescita della povertà sia insicurezza verso il futuro. Rifondare il capitalismo è a questo punto vitale per le economie di tutti i Paesi e ciò non deve significare frenare l’espansione dei mercati globali o adottare forme di protezionismo, ma individuare e indicare le regole da seguire perché il capitale abbia anche una funzione sociale. Per fare ciò occorre una governance nazionale e globale il cui scopo sia quello di trasferire i benefi ci del libero mercato non a pochi ma a tutti gli individui. Una governance che riconsideri primario il fattore umano rispetto ai fenomeni economici.
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Il “compagno” FINI
Il buon Gianfranco sembra uomo di sinistra.
E gli elettori cosa penseranno?
- di Guerrino Iacopini -
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 4 maggio 2009
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Gran parte degli ex elettori del MSI prima e di Alleanza Nazionale poi da qualche tempo non si riconoscono più in Gianfranco Fini e nei suoi colonnelli. Chi sostiene che a Fiuggi si era pensato di portare il MSI nella direzione attuale mente sapendo di mentire, come pure non dice il vero chi sostiene che le loro trasformazioni sono state dettate dall’evolversi dei tempi e non sono il frutto di una strategia politica del tutto opportunistica. Il Presidente della Camera, per paura di non apparire gradito come leader istituzionale, e di conseguenza correre il rischio di non salire ancora qualche gradino nella scalinata del potere, ha fatto suoi principi e pensieri della sinistra. Quelle che lui espone non sono idee e obiettivi di una destra liberale e occidentale, ma modelli culturali di sinistra. Fini e i suoi colonnelli sono diventati l’esatto contrario di quanto hanno sempre sostenuto di essere. Non ci sarebbe nulla di scandaloso nel dire: “Cari ex camerati, abbiamo voluto guardare un attimo dentro noi stessi e ci siamo accorti che in realtà non eravamo quelli che pensavamo di essere. Pertanto da domani ci dimetteremo dalle nostre cariche e ci iscriviamo tutti al Partito comunista”. Ormai quella di Fini è una svolta solitaria, in palese contrasto con il suo elettorato tradizionale e con la maggioranza del suo partito. Il Presidente della Camera, da persona intelligente, sa che continuare su questa strada alla fi ne lo porterà a fare i conti con la volontà dei suoi elettori, i quali difficilmente accetteranno come guida una figura che non crede più negli stessi ideali e presenta un dna molto diverso dal loro. Finché dura il Pdl, Fini non avrà problemi con gli ex elettori di An. Ma cosa accadrà se il matrimonio tra FI e An non dovesse durare? Dando per scontato che la cosa non è poi tanto improbabile, credo che il partito si vedrebbe costretto a cambiare leader. E forse (se la conversione è reale) sarebbe un bene per lo stesso Fini, che, seppur vero rimarrebbe senza partito, potrebbe esprimere veramente se stesso senza timore alcuno, anche perché nessuno meglio di lui sa che in An per portare gli iscritti sui suoi stessi principi non basterebbe un’altra generazione. Traghettare gli ex comunisti e gli ex fascisti sulla sponda costituzionale è scelta coraggiosa e nello stesso tempo ardua, anche perché la trasformazione politica in corso è stata talmente veloce che nessuno schieramento politico era preparato a tanto, quindi nessuno ha trovato il tempo di educare le masse ai nuovi eventi. Se Fini si spaccia per socialista, Veltroni per democristiano e Franceschini per comunista, la confusione regna sovrana nella gente comune, ormai abbandonata a se stessa, senza più riferimenti certi. La metamorfosi politica sta disegnando scenari sconosciuti, che non lasciano trapelare dove ci condurranno e cosa ci offriranno. La popolazione è seriamente preoccupata per il domani. All’orizzonte non si intravedono idee, progetti e strategie che possano farci stare tranquilli. La maggioranza degli italiani ha compreso che il presente è caratterizzato dal binomio Popolo e Potere, dove il Popolo conta sempre meno e il Potere sempre più. Più persone capiranno questo e meno conterà quello che i leader politici sosterranno. Alla fine prevarrà chi riuscirà a farci arrivare alla fine del mese nel modo più dignitoso possibile.
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Rave Party
Viaggio verso l’inferno
- di Guerrino Iacopini –
Pubblicato su Profili Italia anno II numero 7 settembre 2009
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I soliti sapientoni vorrebbero far passare il rave party per una sfida dei teenager alla società e alle sue regole. Per dargli una motivazione sociologica, magari facendo anche paragoni con Woodstock o con gli anni ’70. Ma altro non è che un luogo dove si va per riempirsi di droghe e alcol di ogni tipo e arrivare il più vicino possibile a quel confine oltre il quale c’è solo l’autodistruzione. Al rave non si va per stare con gli altri, o per parlare di problemi sociali, ci si va per il piacere personale di sentirsi il più possibile sconvolti e scoprire dove arrivano i propri limiti. Quando Internet e il tam tam degli sms avvisano i nomadi dello sballo su ora e luogo del “raduno del delirio”, il popolo rave s’incammina verso quello che crede il proprio paradiso e, che invece, sempre più spesso si trasforma in un viaggio verso l’inferno, dal quale difficilmente si torna indietro. Si comincia con qualche “canna”, e poi giù fiumi di alcol per passare poi a qualche cosa di più tosto come la ketamina. E durante la notte o sei stravolto e steso in qualche angolo solitario o sei ancora in piedi perché pieno di coca, anfetamine, ecstasy, superpill o chissà cosa, mentre sopra i camion gli altoparlanti ti sparano addosso 30.000 watt di acid music o techno music. Nell’ipermercato dello sballo si trova proprio tutto, tossici incalliti vengono da ogni parte per vendere qui le loro mercanzie, per potersi fare a loro volta, e gratis. Tanto loro non corrono pericoli, sanno dosare la roba e misurare i rischi, a differenza di tanti giovanissimi sprovveduti, ansiosi di assaggiare di tutto e di più. Spesso questo è anche il luogo dove la criminalità organizzata sperimenta i nuovi tipi di droga per poi diffonderli sul resto del mercato, se a lasciarci la pelle non sono in molti. Negli ultimi anni in Italia questi party hanno ucciso decine di ragazzi, mentre in centinaia sono finiti in ospedale per coma etilico o per overdose. Ci sono poi le vittime indirette, quelle provocate, per esempio, dagli incidenti stradali per guida sotto l’effetto di alcol e sostanze stupefacenti. A ferragosto altri due giovani hanno perso la vita durante i rave party. Un ventiseienne israeliano è morto in Molise, annientato da un’overdose di sostanze stupefacenti, mentre qualche attimo prima se la spassava al rave “Legal tecnica” in località Bocca della Selva, tra Guardiaregia (Campobasso) e Castello del Matese (Caserta). A poche ore di distanza, il secondo decesso, sempre durante una festa rave nel Salento, tra Castro marina e Marittima di Diso, dove è morta una ragazza di 23 anni di Potenza. Al raduno erano presenti circa duemila giovani che si erano dati appuntamento, come al solito, tramite sms e Internet. Un raduno occasionale, in mezzo a uliveti e campi incolti, dove sotto un caldo asfissiante e una musica a tutto volume, che si sentiva fi no a Lecce (a 40 chilometri di distanza!), i ragazzi, ubriachi fradici e fatti persi, per quanto incoscienti, non si accorgevano neanche di chi gli stava morendo a fianco. Se il problema non è la sfi da al sistema, allora cos’è? Più che interrogarmi sul fenomeno in se stesso, io padre di due fi gli, uno quasi diciannovenne e l’altra quasi tredicenne, mi domando: ma come si fa a non accorgersi che i propri fi gli tornano a casa sconvolti dall’alcol e dalla droga? Come si fa a non capire cosa e chi frequentano? Duemila ragazzi disfatti da un rave party e nessuno dei quattromila genitori si accorge di niente? Ecco, credo che il problema sia proprio questo. Quest’estate, per la prima volta, dopo una vita che mi ammazzo di lavoro per lasciare un po’ di sicurezza a mia moglie e ai miei figli, senza dirmelo apertamente, ognuno di loro mi ha fatto capire che per tutti è più importante stare insieme, parlare e prendere in considerazione l’altro anziché avere qualche soldo o qualche casa in più. Forse alle migliaia di ragazzi che ai party vanno a giocarsi una partita dove la posta in palio è la loro vita, quest’idea malsana neanche passerebbe per l’anticamera del cervello, se accanto a loro ci fosse una maggiore presenza dei genitori. Io lo sto facendo. Perché non provate anche voi a difendere la sola cosa che conta di più?
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